martedì 24 aprile 2007



Si era schiantato su un aereo internazionale. Era morto un umido giorno di luglio, sudato e appiccicoso come gli altri suoi fratelli della settimana. E dire che non amava più volare da quel giorno di qualche anno fa quando era cambiato il mondo e che sarebbe andato in macchina anche a pasquetta a fare una gita fuori porta in Siberia pur di avere la terra sotto i piedi. Ma aveva violentato sé stesso per salirci su quel maledetto aereo, che altro modo non c’era. Tempo neppure. Era partito in cerca di qualche cosa che sperava da una vita. Se l’era detto più volte: non andare. E Dio solo sa se quelle voci che vengono dall’interno non si debbano ascoltare. Che o sono rutti per digerire o verità che proviamo a nascondere. Ma era curioso, lo era sempre stato. Era curioso, sì, oltre che avere mille altra qualità. Pigro, noioso. permaloso, soprattutto, ed infantile. Con il naso lungo ed un po’ di pancia (non troppa, però), ombroso, asociale, snob e vanitoso. Di poche parole, a volte nessuna che è meglio di troppe. Neanche più tanto ragazzo, in realtà. Ma certe cose è meglio saperle, così, per farsi bene il quadro della situazione. Meglio saperle, sì. Come che il più bel disco di musiche per natale è Baby it’s cold outside, di Holly Cole.
E poi non poteva mica continuare così, no? Una decisione andava presa. Una svolta, in un senso o nell’altro. Trarre il dado e del Rubicone farne brodo. E sbrodolarsi pure, nel caso. Che è sempre meglio la macchia degli stolti delle camicie pulite degli inutili.
E aveva accettato quella scommessa, allora. Persa in partenza (che mica ho detto stolti a caso). Infatti: boom. Aveva perso tutto. Faccia e cuore esplosi. E pure brandelli del suo corpo che volteggiavano, ora, nel cielo sopra la Borgogna. Ironico per chi ama il vino, il suo profumo.
A farlo decidere era stata una vecchia canzone walking on a thin line. Lo aveva fatto pensare che siamo tutti equilibristi su un cavo che attraversa le nostre vite. Alcuni cadono e vengono pianti. Altri non ci provano neppure. Abbandonano fischiati dal pubblico e presto dimenticati. Ma i migliori attraversano il vuoto su quel cavo sottile per arrivare dall’altra parte. Ovunque essa sia. Qualsiasi cosa essa sia. Vestiti come pagliacci, anche. Ma ci provano e ci riescono. Ricompensati dall’amore del loro pubblico. E lui, presuntuoso (mi eri dimenticato di dirlo, vero?), pensava di essere tra i migliori e potercela fare. Presunzione, sì. O forse solo illusione. Accecato com’era dalla vista del sole che era arrivato nella sua vita improvviso. Da quell’estate che non se n’era mai vista un’altra così.
Era stato un po' come se tu fossi un olimpionico di tiro con l'arco. Sei forte, sei bravo. Hai aspettato da tempo la tua grande occasione. Paziente. E sei l'uomo giusto. La gente ti apprezza per quello che sai fare. Sei un campione. Sei il Campione. (lo so che immaginarsi il Campione come uno che tira con l’arco non è facile. Però coraggio, un piccolo sforzi di fantasia. Magari in futuro, no?). Dicevamo del Campione. L’Invincibile. Ma poi si avvicina la gara. Aumenta la tensione. Ti viene la febbre. Il torcicollo. Mal di fegato e tendinite. Senti pure dolori muscolari che neanche immaginavi esistessero. Ti innervosisci. Sei agitato. Sei tra i favoriti ma dovrai sudartela. E ci arrivi stremato, vuoto. Ti tremano le mani come mai era successo.
Così che succede, quindi? Succede che fai schifo, fallisci. Ti fischiano. Ti odiano. Hai perso quella grande occasione. Quella con la O grande come una vita. Quella che sei fortunato se ti capita una volta. Che sei un cretino se la lasci scappare. E questo resterà di te negli annali. Per questo verrai ricordato. Ed allora pensi: come farò a perdonarmelo? Come farò, per il resto della mia vita a convivere con quella ferita nel cuore che continuerà a sanguinare, impietosa? Impossibile. Non sarà il tempo a guarire. Ti sei ucciso con le tue mani. Hai scagliato una delle tue frecce contro te stesso. Sei morto.
A volte è così che succede. Con una differenza. Le olimpiadi, dopo quattro anni, ritornano. Le sue, di olimpiadi, invece, non sarebbero tornate più..
Quello che più gli faceva rabbia era la propria colpa. L’aver fatto tutto da solo. Aver fallito per non essere stato se stesso. Non la voce, tremante ed insicura. Non i gesti, che aveva gesticolato come non aveva mai fatto. Non le parole. Quelle proprio no. Le parole. Che erano state quelle a farla innamorare. Le sue parole, quelle che sapeva scrivere così bene. Che a leggerle le si bruciavano le ali, e che invece lì, davanti a lei, non era stato capace di dire. E di bruciato era rimasto solo lui. Pollo alla diavola. Povero diavolo.
Si era presentato davanti lei pietrificato. Come un adolescente innamorato. Lui. Che era sempre stato determinato, freddo. Forse cinico. A volte. Che aveva sempre messo a fuoco l’obbiettivo e poi sparato, centrandolo. Paziente proprio come un cacciatore. E poi, quando gli si era presentata davanti la preda più grande, quella perfetta, niente. Cilecca.
Che ci sono volte in cui senti che vorresti dire qualche cosa. Che hai da dire quella cosa. Che vorresti che gli altri sapessero, capissero, ricordassero. E che dopo ti amassero perché l’hai detta.
Poi non ti vengono le parole.
Questo era successo. E sulla scaletta di quell’aereo che lo portava a casa lui sentì di essere morto senza sapere che morto lo sarebbe stato davvero da lì a poco. Almeno quello, in fondo l’aveva azzeccato (e mica tutto può sempre andare per il verso sbagliato, no?).
Aveva passato la vita aspettando. Di crescere, di laurearsi, di divertirsi, di sposarsi, di un lavoro che gli piacesse. Si vive di attesa e di speranza, si diceva sempre, destinate a morire all’alba. O forse no.
Quel forse, puntualmente disilluso, era ciò che lo faceva andare avanti. Ottimismo.
Che nonostante tutto non gli mancava, chissà perchè.
Ad esempio. Nella sua scuola si organizzava, tutti gli anni, il campionato di istituto di calcio a cui tutti erano invitati a partecipare. Per far si che nessuno si sentisse escluso e che tutti, più o meno, potessero giocare ogni classe aveva due squadre che partecipavano a campionati separati: i bravi ed i brocchi. Lui, ça va sans dire, stava tra i brocchi in una squadra capitanata da una specie di hobbit che si chiamava Fantozzi. Un nome ed un programma fedelmente rispettato: una squadra timida ed impacciata che arrivava regolarmente ultima.
Tutto questo, preso nel giusto modo, lo sport come gioco e non come esasperato agonismo, insegna a prendere la vita con distacco, con ironia. Insegna che l'importante è partecipare, appunto. Certo, però, che vincere, a volte, gli avrebbe fatto piacere. Ma questo era il suo stile, la sua cifra. Ottimismo, comunque.
La verità, però, è che le cose gli andavano sempre allo stesso modo. Non troppo male, in realtà. Ma in modo frustrante. Lui partecipava alla gara. La linea del traguardo era sempre ben visibile. A volte, addirittura, era in vantaggio sul rettilineo finale e faceva già la ruota, come i pavoni. La ola da solo mentre gli altri inseguivano, correvano, recuperavano, superavano. Ecco. Che sempre, ogni volta, ogni maledettissima volta, immancabilmente, perdeva. Piombavano come falchi gli avversari che lo superavano, togliendogli la gloria, il posto più alto del podio. C’era sempre l’intoppo, l’imprevisto.
Una vita da gregario, diceva uno che gregario non era. Frustrante per uno che, in realtà, meritava altro.
A descriverlo, chissà come funzionano certi meccanismi del nostro cervello, mi è tornato tra le pieghe della mente The ragpicker's dream di Mark Knopfler. Knopfler è un uomo innamorato della musica e questo è un disco ispirato, bello e delicato. Da sentire a volume non troppo alto. Un disco che, però, ho comprato tempo fa a scatola chiusa. Che ho comprato per la copertina. E’ un'immagine famosa, uno scatto in bianco e nero di Eliott Erwitt. Due amanti che ballano in cucina stretti in un abbraccio. Un’immagine bella ma che lascia, comunque, l’amaro in bocca. Qualcosa di magnifico e triste. Ecco. Quell’immagine, quel disco. Sono tutto quello che lui era.: magnifico e triste.
E’ bello ascoltare you don't know you're born con gli occhi ed il cuore in quella foto. E a volta piangere un po’ di sé. Lui, però, di piangere non aveva voglia. Magari suicidarsi. Ma piangere proprio no. Ed ora che era a pezzi, nel vero senso della parola, la sua essenza fluttuava nell’aria calda di luglio . E tutto era più chiaro. Tutto era più bello. Tutto aveva senso. Era morto (non suicida, che lo dicevo per dire) e rideva.
La storia era semplice e triste. Di quelle che per caso ti incontri, ti scrivi, ti piaci. E poi ancora ti scrivi e ti scrivi e ti scrivi. Parole liquide da bere a pasto e fuori. Parole che ubriacano come vino del sud, come il sole in testa. Parole che hanno il profumo del mare in un giorno alla fine di giugno. Che fanno ridere, piangere, leggere il cuore, colpire allo stomaco. Parole che accorciano lo spazio, quello grande che c’era tra di loro, che lui stava qui e lei mille chilometri più in là.
E poi arriva il giorno che quei chilometri non li sopporti più. Che troppo spazio soffoca il tuo cuore claustrofobico. Sarà il caldo di un’estate che corre o sarà la voglia che prima o poi ti assale. Sarà che vuoi sentire il profumo della sua pelle, che quello delle sue parole lo conosci bene. Ed allora raccogli coraggio da ogni cassetto perché sai che te ne servirà molto. Lo chiederesti in prestito se fosse possibile, ma le banche, è noto, non ci sono mai quando davvero servono. Se bastasse faresti la coda all’ipermercato di sabato pomeriggio. Tra mamme in tuta e figli all’arma bianca. Che il gioco varrebbe si un cero alla Madonna, eccome.
Fu così che partì. E se semplice e triste era stato l’inizio, semplice e triste fu pure il finale.
Che partì quel giorno d’estate, la vide, lo vide. Si innamorò, lui. Non lei. E finisce così.
Forse, si disse, le storie d’estate non finiscono mai bene, o forse dovrebbero solo nascere al mare. Che l’estate in città, lo sanno tutti, fa caldo e nessuno ha più voglia.
Ed ora, in quel cielo a nord ovest, fatto a brandelli, polverizzato fuori, che a farlo dentro ci aveva pensato già lei, ora lui sorrideva. Buffo, gli sembrava tutto questo suo destino al contrario. Tanto che ora gli sembrava di tornare a casa. Come un tappo di prosecco sparato nel cielo. Sorridevano le sue cellule, quello che rimaneva di lui. I suoi pezzi che volavano ingiù, su quei vigneti che tanto aveva amato la volta che ci aveva dormito in mezzo. Mezzo fegato ed un po’ di ossa. Il naso che quello, quando è lungo, non sparisce mai. Il resto era polvere.
Sorrideva, sì, pensando queste ultime, disperate parole:
sarò dottore per giocare con te
vino rosso per entrarti dentro e farti girare la testa
sarò strada perché tu mi percorra andata e ritorno
parole per chiamarti e non dirci niente
sarò la tua casa e sarai a tuo agio
il letto dove riposerai e dove mi vorrai
sarò città e vivrai dentro di me
campagna per spogliarmi in autunno, quando arriverai.
sarò, se tu sarai.
Sorrideva pensando che sarebbe diventato terra e poi uva. Mosto e poi vino. Vino che lei un giorno avrebbe bevuto.
Le sarebbe entrato dentro, sì. E le avrebbe fatto girare la testa. Finalmente.

1 commento:

Anonimo ha detto...

è bello da piangere. piangere dal ridere e piangere dalla tristezza. come la vita.

Powered By Blogger

Archivio blog